Libri belli ma brutti |"Butter", di Asako Yuzuki
Ricco, intenso e piacevole, ma poi scatena senso di colpa e pesantezza di stomaco (proprio come il burro)
Esiste un libro che è oggettivamente bello, ma che vi ha lasciato sensazioni brutte?
“Butter”, romanzo di Asako Yuzuki del 2017, tradotto da Bruno Forzan e pubblicato in Italia da HarperCollins nell’aprile del 2024, mi è rimasto sullo stomaco - letteralmente.
La trama
Dal risvolto di copertina:
Rika è una giornalista in una rivista maschile. È l’unica donna nel suo posto di lavoro e spesso viene trattata come una segretaria, quando non peggio. Per cercare di farsi strada lavora giorno e notte e tutto ciò che riesce a cucinare quando la sera torna tardi a casa è un ramen preconfezionato. Da tempo però un pensiero la assilla: vuole intervistare Manako Kajii, la cuoca gourmet accusata di aver assassinato gli uomini d’affari con i quali si intratteneva, dopo aver cucinato per loro. Ma la donna non rilascia interviste e non intende ricevere visitatori nel carcere di Tokyo dove è detenuta.
Rika decide di provare un’altra strada e le scrive una lettera per conoscere la ricetta dello stufato di manzo, pezzo forte della cucina di Manako. La detenuta a quel punto accetta di incontrarla. Quando, però, le visite in carcere alla serial killer si intensificano, cresce anche la curiosità gastronomica di Rika.
Durante i loro incontri, che si avvicinano più a una masterclass di cucina che a un’indagine giornalistica, sembra infatti che sia proprio la giovane reporter a cambiare. A ogni pasto che prepara e consuma, qualcosa si risveglia nel suo corpo e scopre nel cibo un piacere liberatorio: forse lei e Manako hanno in comune più di quanto pensasse?
Ispirato al vero caso di cronaca della truffatrice e serial killer “The Konkatsu Killer”, Butter di Asako Yuzuki è un romanzo spiazzante e un caso letterario in patria, dove è stato candidato al Premio Naoki, il più importante riconoscimento giapponese. Un’esplorazione vivida e inquietante sulla misoginia, l’ossessione e il piacere trasgressivo del cibo in un Giappone in cui le donne devono sempre compiacere gli uomini e mai se stesse.
Attenzione: quella che seguirà non vuole essere una recensione, ma più un’analisi introspettiva del perché questo romanzo mi abbia turbata così tanto. Non posso evitare alcuni spoiler, perciò se non avete ancora letto il libro e contate di farlo a breve, vi consiglio di mettere in stand-by la lettura di questo pezzo e tornare più avanti.
Un po’ di premesse
Apprezzo molto la letteratura giapponese: la apprezzo, ma al tempo stesso mi disturba. Primo, perché ogni volta che leggo un romanzo di autori giapponesi il mio cervello mi ricorda che in Giappone io non ci sono ancora stata - insomma, è una raffinata forma di masochismo che riservo alla mia persona.
Secondo, perché 8 volte su 10 i finali dei romanzi giapponesi mi lasciano l’amaro in bocca. Aperti, eccessivamente ambigui o semplicemente tagliati con l’accetta, mi fanno pensare che gli autori preferiscano che sia il lettore a trarre le proprie conclusioni. E questo potrebbe anche andare bene, se non fosse che molto spesso mi sembra una furbata per non prendere una decisione e prendersi la responsabilità dei propri personaggi e ciò che succede loro.
“Butter” è un testo molto complesso, e anche corposo (530 pagine, 540 se includiamo il glossario e le annotazioni finali). È un ottimo romanzo. È innegabile. Una fotografia implacabile della società giapponese, ossessionata dalla magrezza e piagata dalla falsa modestia, dal conformismo, dal mimetismo sociale. L’autrice ha fatto un lavoro eccellente nel caratterizzare i propri personaggi, con le loro fisime e trascorsi dolorosi, e sottolineare le storture di una società estremamente efficiente e produttiva, ma carente in empatia e calore. Sono convinta che i personaggi della Yuzuki siano persone “reali”, o meglio, che l’autrice abbia concentrato alcuni punti di forza e di debolezza dei suoi connazionali e abbia dato loro corpo e voce. E questo mi perplime, e mi rattrista molto. Perché in questo romanzo non c’è un solo personaggio “a posto”; nemmeno alla fine.
⚠️ SPOILER! “Butter” non dà una versione definitiva dei fatti che coinvolgono l’accusata Manako Kajii, né ci permette di stare sereni nel salutare Rika Machida. Io ho chiuso il libro pensando tra me “Ma starai bene davvero, Rika? Starete tutti bene?”; e in realtà, non credo proprio lo faranno.
Sono convinta che l’autrice sia bravissima nel riconoscere le zone d’ombra della società in cui vive e riportarle su carta con grazia. Ma grazia non significa efficacia: il libro è stato un successo in patria, ma i Giapponesi cosa avranno capito da questo testo, considerando che il loro sistema comunicativo e relazionale è veramente macchinoso?
Hon'ne (本音) si riferisce ai sentimenti veritieri e ai desideri profondi di una persona. Questi possono essere contrari al ruolo sociale o alle aspettative della società o della famiglia in base alla propria posizione e alle circostanze, e spesso sono tenuti nascosti a tutti, tranne ai propri amici più intimi. Tatemae (建前), letteralmente "facciata", indica il comportamento e le opinioni che una persona mostra in pubblico. Tatemae è quello che la società si aspetta, ciò che è richiesto in base alla propria posizione e alle circostanze, e queste possono o no corrispondere al proprio hon'ne.
(da Wikipedia)
Il Giappone è un paese dal senso comunitario notoriamente radicato: nella sua forma più estrema un atteggiamento altrimenti nobile sfocia nel conformismo e nel pregiudizio. La società giapponese non ama gli eccessi, gli elementi che si distinguono troppo, chi esce dai binari: il problema è che i confini tra tollerabile e non tollerabile sono molto labili e, complice una comunicazione poco trasparente, può essere davvero difficile trovare il giusto equilibrio tra la propria personalità e aspirazioni, le aspettative di famiglia e amici, e la dimensione pubblica e sociale. In “Butter” lo scontro si dipana su più fronti, tra i quali: individuo vs. comunità, professione vs. vita privata, corpi conformi vs. corpi non conformi e, infine, donne vs… donne.
“Sono largo, contengo moltitudini”
Manako Kajii è in carcere perché accusata dell’omicidio di tre uomini con i quali aveva una relazione e dal quale si è fatta consegnare del denaro. Il fatto, per quanto macabro, non scalderebbe tanto gli animi se non fosse per un particolare: Manako non è considerata abbastanza attraente da poter avere un tale ascendente su un uomo, tantomeno tre. Manako è considerata (e trattata da) grassa (pesa quasi 70 chili, ipotizza la voce narrante) e vecchia (ha superato i 35 anni). Queste sue caratteristiche “straordinarie” mandano in confusione tutti: i familiari delle vittime, le persone che l’hanno conosciuta, gli inquirenti, gli uomini che parlano di lei, persino la protagonista giornalista.
Il fatto che uomini e donne, in maniera unanime e spietata, dipingano Manako come una donna grassa e vecchia e quindi incapace di suscitare qualsiasi scintilla di attrazione mi ha lasciata, prendendo in prestito dai social “disappointed, but not surprised”. Il rapporto con l’estetica e la vecchiaia è da sempre travagliato per tutti - anche per gli uomini, certamente; per le donne, però, non è una lotta solo sul piano biologico, ma anche su quello dell’attrattività. Gli uomini maturano, le donne invecchiano.
E adesso che ho proprio 35 anni, mi sento come se mi fosse comparso un cronometro sopra la testa, che scorre inesorabile verso la mia data di presunta scadenza. Quand’è che una donna “scade”? Perché una persona dovrebbe scadere, in primo luogo? Quand’è che smettiamo di essere validi in quanto esseri umani?
Manako non è vecchia perché la sua età anagrafica è avanzata; è vecchia perché a 35 anni non è sposata, non ha messo al mondo dei figli, non si è affermata in un percorso professionale. Non ha superato quegli "step” non scritti da nessuna parte ma chiari a tutti, ma soprattutto alle donne giapponesi: anche un paese moderno e innovativo come il Giappone cade nella trappola del “beh sì le donne possono far tutto, ma una cosa alla volta”. Se sei una donna in carriera non hai tempo per avere una relazione sana e iniziare una famiglia (come Rika, giornalista pericolosamente sottopeso per la quale “relazione” significa vedersi una volta ogni due mesi); se vuoi essere madre non hai tempo per un lavoro (come l’amica Reiko, che si è licenziata da un lavoro che amava nella prospettiva di una gravidanza); se ti vuoi divertire, poi la sconterai dopo (come Manako, bon vivant e edonista che ama fare e circondarsi di cose che le piacciono).
La persona che sono oggi ha trovato una sorta di pace - seppur fragile: forse non sono pienamente soddisfatta di me stessa e del mio fisico1, ma di certo non sono nello stato mentale in cui versavo a 20 anni. Ho il metabolismo lento. In famiglia siamo tutti bassi, rotondetti e poco amanti dell’attività fisica. Se avessi soldi che mi escono dalle orecchie e non dovessi andare a lavorare per vivere, starei tutto il giorno in casa a leggere e a giocare coi videogiochi2.
Ho vissuto gran parte della mia vita e della mia adolescente in sovrappeso: poi si è scoperto che ho una disfunzione tiroidea e intervenendo le cose sono migliorate, ma ho trascorso anni a sentirmi e pensarmi brutta + indegna di sentirmi e pensarmi carina. Una combo devastante. Ho semplicemente rifiutato di “perdere” tempo sul mio aspetto fisico. Ero quasi orgogliosa della mia presunta unicità, del mio non volermi valorizzare, delle mie tutone informi di Cisalfa in tre colori. Mi ricordo che mi truccai per la prima volta in occasione degli esami di maturità, ai quali mi presentai con una linea di matita nera sugli occhi troppo marcata, i capelli in una cipolla minuscola e strettissima, una discutibile maglietta color lime e dei leggins neri usati come pantaloni. Se ci ripenso adesso, rabbrividisco3. Mi sentivo un po’ più furba delle altre, io acqua e sapone e loro che non parlavano altro che di parrucchieri, jeans di marca e scarpe col tacco. A volte mi chiedo se i miei ricordi siano falsati, se vedessi le mie compagne solo come io volevo vederle; o forse, più semplicemente, anche loro cercavano solo di fare del loro meglio e godersi l’adolescenza, relegando il broncio e le preoccupazioni alle mura domestiche.
Era tutta finzione, per tutte noi.
In realtà anelavo anch’io i complimenti, la validazione degli altri, la considerazione. Un po’ come la volpe e l’uva, non avendo niente di tutto questo, facevo finta che non mi importasse. Ed è andata anche abbastanza bene… per un po’. Con l’ingresso all’università sono caduta da un’ossessione all’altra: da zero considerazione e attenzione alla mia persona, a una eccessiva. Mi sono resa conto che ero arrivata all’età adulta precludendomi una dimensione importante dell’esistenza: l’affermazione di sé, anche dal punto di vista fisico ed estetico. Non avevo saputo usare sapientemente il corpo con cui ero venuta al mondo. L’avevo coperto, ma non l’avevo mai vestito; lo usavo, ma senza consapevolezza; lo muovevo, ma non lo guidavo. Alla fine delle superiori, pesavo 70 chili - proprio come Manako Kajii.
E mi prese il panico.
Mi sentii come se dovessi recuperare tante cose tutte insieme. E io, che sono una persona ansiosa e caotica, caddi in una sorta di follia erratica e disperatissima. Nel momento in cui ero ancora impegnata a studiare e a dare esami, quest’ansia era contenuta: avevo da fare, dovevo concentrarmi e recuperare quei mesi di ritardo che avevo accumulato. Ma appena gli esami iniziarono a diradarsi, la tesi a prendere forma e il traguardo a essere sempre più vicino, nella mia mente si spezzò qualcosa.
Iniziai a contare le calorie contenute in tre carote; a portarmi sacchetti di verdura cruda a feste e ritrovi con gli amici. Passai la mia estate di laurea in piscina, dall’apertura alla chiusura, facendomi 287 vasche senza pause. Smentii mia madre quando mi diceva che mi stavo ammalando. Mi irritai per la sua preoccupazione, le risposi male, ignorai i suoi tentativi di confronto. Non durò molto, ma mi bastò. Ero riuscita a dimagrire, certo: nel mio momento peggiore pesavo 50 chili, ma ci ero arrivata privandomi del cibo e portando il mio corpo alla soglia del collasso.
E puntualmente, quando si fanno le cose in un raptus, i risultati non durano a lungo. Mi arresi, ripresi a mangiare, i miei genitori me ne dissero di ogni, e ovviamente recuperai qualche chilo. Non tutti, non abbastanza da farmi ricadere nella disperazione, ma mi allontanai nuovamente dall’ideale che avevo in testa. Ancora oggi oscillo con il peso; non sono grassa ma nemmeno snella, ho i rotolini sulla pancia e accumuli adiposi sulle natiche; mi faccio meno problemi con i vestiti ma ancora non mi sento a mio agio in abiti corti e costume da bagno.
Non mi riduco alla fame, ma certamente faccio attenzione a cosa mangio e mi vieto alcune cose. Sono consapevole che non brucio calorie come altre persone, e mi adeguo contenendo la mia gola. Eppure, non sono ancora fuori dal tunnel.
Non sono grassa, razionalmente lo so: eppure puntualmente, dopo i pasti sollevo lo sguardo da quello che sto facendo e chiedo al mio compagno «Sono grassa, vero?». tutti i giorni, senza fallo, almeno 3 volte al giorno. Salute ed estetica quasi sempre non coincidono, e non è sufficiente essere solo in salute come non è sufficiente essere solo esteticamente gradevoli. Sono due dimensioni che vanno d’accordo, sì, ma non è detto che procedano sullo stesso binario.
Io sono ancora profondamente radicata nella convinzione di non essere abbastanza conforme, nonostante il mio corpo sia normo-peso. Manako, invece, che dalla conformità della sua società si discosta molto, sembra aver pienamente accettato la sua corporalità, la sua “pesantezza”, la sua fame di cibo buono e goloso. Manako ama il suo corpo, lo tratta con tenerezza e reverenza, lo fa divenire un oggetto sessuale non solo per gli altri, ma prima di tutto per se stessa. Il suo corpo è il suo oggetto erotico, e l’ha ottenuto non rinunciando a niente, anzi concedendosi il cibo che le fa gola e le esperienze che le donano piacere.
A un tratto Manako si arrotolò una manica del maglione, le mostrò il braccio paffuto e iniziò a farvi scorrere le dita con delicatezza. Consapevole di come Rika stesse ammirando i candore della pelle, prese a dire con voce nasale: «In questo braccio, nel petto, nel sedere, sono contenute in abbondanza tutte le cose che mi piacciono. Sono state le bistecche del New York Grill, il sukiyaki di Imahan, la chaliapin pie che vendono al Gargantua dell'Imperial Hotel a formare questo corpo! Ogni volta che mi viene a noia il menu fisso che mi propinano qui, ogni volta che mi affiora alla mente il ricordo di piatti prelibati e mi sembra di impazzire, mi accarezzo il corpo, lo prendo con delicatezza tra le dita. L'avambraccio, in particolare, è freddo e morbido, e quando lo percorro con la lingua, riesco a percepire un sentore di dolcezza...».
Manako ha accettato se stessa, i suoi gusti e il corpo che ha in conseguenza delle cose che le piacciono. Pazienza se il suo aspetto è poco convenzionale e crea disturbo negli altri: lei ha trovato la sua dimensione. Ecco, io vorrei raggiungere quello stato di grazia e accettare pienamente anche quelle caratteristiche che, ancora, mi fanno molto soffrire: vorrei saper accettare le mie natiche larghe, il mio seno inesistente, il mio naso rotto e i miei capelli fini. Vorrei potermi vedere bella e non provare invidia ogni volta che incrocio la strada di una donna che sembra avere tutto quello che io non ho, e anche di più.
Amici, amanti e…
Manako e Rika sono persone diversissime: dagli interessi, dalla forma fisica, dalle esperienze di vita, sono letteralmente agli antipodi. Eppure Rika si sente affascinata da questa presunta assassina, così diversa, così originale, così altera. Per convincerla a farsi intervistare da lei, Rika dovrà completare una serie di tappe culinarie ed esperienziali suggerite dalla stessa Manako. Questo percorso porterà Rika a mettere in discussione la vita che ha condotto fino a quel momento e… a ingrassare.
Nonostante Rika si renda conto che la sua relazione “romantica” sia insoddisfacente e di stare meglio rispetto a quando era sottopeso, è ancora ben lontana dalla body acceptance e sembra quasi volersi giustificare con il “compagno” per il fatto che lui provi disgusto per il cambiamento avvenuto nella sua fisicità.
«lo non sono affatto fiduciosa di potermi impegnare ventiquattr'ore su ventiquattro nel modo che farebbe felice te o la gente. Non sono più così giovane, e non voglio farmi consumare dagli altri. Voglio mettere al centro prima di tutto me stessa, sia nel lavoro sia nelle relazioni personali […] Anche una volta finito il lavoro di Manako Kajii, io forse resterò la stessa di adesso. Con l'età anche il metabolismo rallenta, e probabilmente ingrasserò ancora di più. E non si tratta solo del mio aspetto. Sarò sempre più impegnata con il lavoro, e magari ci saranno periodi in cui non avrò neanche il tempo di parlare tranquillamente con te come stiamo facendo adesso.»
Per buttarla in caciara come diremmo noi romani, Rika sposta l’attenzione dal suo corpo al suo lavoro, sperando che sia un tema che possa mettere fine alla discussione. Ma il rapporto problematico con il proprio fisico non si risolve certo con la conversazione con l’uomo, e nemmeno con la rottura del loro rapporto. C’è di buono, però, che questo dialogo sia fonte di un’altra epifania:
«Siamo tornati amici, vero?» aveva persino detto lui, ma in realtà a lei sembrava solo il prolungamento di quello che era sempre stato nient'altro che un'amicizia. Forse si erano solo resi conto entrambi di non essere davvero legati l'uno all'altra e di non avere alcuna prospettiva comune. Con un tempismo perfetto, la nebbia in cui si sentivano avvolti si era diradata e il futuro gli si palesava davanti a chiare tinte.
Rika non ha mai amato né se stessa, né Makoto. Probabilmente non è nemmeno nella condizione ideale per riuscirci: Rika ragiona come se la sua salute fisica, il lavoro e le relazioni romantiche/amicali andassero per binari che non si incontrano mai. Ragiona a compartimenti stagni, quando in realtà le tre dimensioni sono profondamente correlate tra di loro e anzi, si influenzano a vicenda.
Seppur errata, la teoria di Ippocrate sull’equilibrio dei quattro umori del corpo ha un parziale fondamento: se c’è uno squilibrio nella nostra vita, si rifletterà sul nostro benessere generale. Non potremo godere di perfetta salute se trascuriamo il corpo, come non potremo avere una mente serena se non dedichiamo tempo all’ozio e alle cose che ci danno gioia.
Ora che sono un’adulta introversa e con reti sociali rade e fragili, mi rendo conto che senza l’amicizia, l’affetto e il supporto degli altri non avrei mai raggiunto neanche una parvenza di gioia; ma, al tempo stesso, so per certo che non avrei potuto essere felice se non avessi fatto selezione nella mia vita. Non sarei potuta essere felice frequentando persone che non mi piacevano davvero; non sarei potuta essere felice se mi fossi accontentata di avere gente attorno giusto per sentirmi meno sola; non sarei potuta essere felice se mi fossi adeguata ad alcune aspettative che la società aveva per me.
Proprio perché non sono una persona socievole e ho bisogno di lunghi periodi di recupero, so quanto è importante circondarsi di persone adatte a noi. Crescendo temevo che non sarei stata capace di crearmi una mia dimensione: sono molto fortunata ad aver incontrato sulla mia strada persone che si sono rivelate perfette per me. Non posso nemmeno prendermi il merito di chissà quale istinto o sesto senso (sono la persona più fessa dell’universo); semplicemente, sembra quasi che il caso mi abbia fatto trovare sul mio percorso persone che si adattavano alla mia personalità, un po’ come una scia di petali per strada che non sai da dove sono arrivati.
Ma se così non fosse stato, mi chiedo se non sarei stata una Rika anch’io.
Dico sempre che non mi dispiace la solitudine, ma sarei in grado di sopportare un isolamento del genere? Io non credo.
«Ci sono due cose che io non riesco assolutamente a sopportare: le femministe e la margarina».
Manako è adamantina nel non volersi “mescolare” alle altre donne, e il suo atteggiamento di disprezzo per loro viene fuori anche durante le interviste con Rika. È evidente che Manako non sopporti le altre donne e si ritenga superiore a loro, in luce del presunto conformismo delle altre e l’unicità e l’indipendenza di lei. In realtà, Manako è semplicemente una donna non femminista e aderente ai valori del patriarcato (si evince dal suo complesso rapporto sia con la madre che con il padre) e vede tutte le altre donne come nemiche. In realtà, è lei a essere incapace di creare relazioni con loro; è lei che non riesce a creare legami paritari e duraturi, ed è sempre lei che, spaventata dalla solitudine, preferisce far finta di non aver bisogno di amiche piuttosto che ammettere di star sbagliando qualcosa. Potrebbe aver ragione nel dire che molte donne sono poco solidali con le donne e aggressive con gli uomini, ma lei fa altrettanto.
«Devo farvi una confessione. La gente crede che io vada pazza per gli uomini, ma non sono affatto quel tipo di donna lasciva e volgare che non pensa ad altro che al corpo maschile. Si può dire piuttosto che io odi semplicemente le donne. Non è uno sfogo, né una rivalsa per il fatto di non riuscire a diventare loro amica. Ammetto che la maggior parte degli uomini conosciuti agli eventi a scopo di matrimonio erano de rammolliti con un forte senso di dipendenza, ma rispetto agli atteggiamenti enigmatici delle donne, alle loro feroci pressioni, all'inquietante tendenza a cambiare parere al primo alito di vento, per me sono molto più semplici da sopportare. […] Non è pensabile che più donne, e tra l'altro belle, possano diventare amiche facendo lo stesso lavoro, e se ce ne fossero tre è assolutamente certo che una di loro verrebbe emarginata. E poi non potevo sopportare che tutte le ragazze riprodotte nelle statue avessero una corporatura esile. Dato che fin da piccola mia madre mi costringeva a fare la dieta con una severità ossessiva, le cose che più odio al mondo sono i prodotti dietetici e l'attività sportiva. So che il mio fisico viene ridicolizzato. Ma proprio quelle persone che lo fanno non capiscono il meccanismo in base al quale gli uomini vengono attratti dalle donne. Di sicuro hanno una vita sessuale insignificante. Le compatisco. Mai cercare di essere superiori agli uomini! Basta soltanto questo. Perché non lo capiscono in nessun modo tutte quelle donne in cerca di marito?»
L’idea di femminismo di Manako è distorta: è convinta che le femministe siano delle donne che vogliono sopraffare gli uomini - e la cosa è alquanto ironica, considerando che è lei quella accusata di pluri-omicidio. È pur vero che, in questo romanzo, gli uomini non fanno affatto una bella figura. In realtà, in questo libro non “vince” nessuno: sullo sfondo c’è una palese critica allo scontro donne vs. uomini, ma in realtà è un tutti contro tutti che, a conti fatti, non porta da nessuna parte.
Quella donna si è insinuata nelle debolezze psicologiche di persone che conducevano una vita solitaria e miserevole. “Gli uomini non sono forse un po' maldestri e incapaci? Se non hanno il supporto pratico e morale delle donne, non riescono a sopravvivere."
Quindi: le donne sono prevaricatrici e manipolatorie, ma gli uomini sono intrinsecamente incapaci di gestire la propria vita da soli. Questa infantilizzazione degli uomini è una degenerazione dell’istinto materno, del quale gli uomini si approfittano e che le donne difendono in quanto attributo femminile. Al tempo stesso, gli uomini si indignano se le donne approfittano della loro disponibilità economica, sebbene si vantino di essere loro i “procacciatori”.
Un cane che si morde la coda, un tutti contro tutti che non porta da nessuna parte, se non a infelicità e rancore.
“Il lavoro non ti ama”
L’etica del lavoro è un pilastro della società giapponese, ed è - giustamente - un suo vanto. Il Giappone è un paese dove si lavora molto, dove il riposo è centellinato e dove il peso della responsabilità4 inizia dalle scuole materne. In cambio, è un paese che assicura servizi dall’efficienza quasi inumana, ordine e pulizia. Questo benessere comunitario, però, richiede il sacrificio del singolo: straordinari non pagati, giorni di lavoro senza sosta, alienazione, difficoltà nel curare rapporti inter-personali, collasso fisico, depressione.
Tutti i personaggi di “Butter” soffrono di qualche scompenso legato alla sfera professionale: Rika lavora troppo, il suo contributo non viene adeguatamente riconosciuto e la sua anoressia risponde a un modello di abnegazione tossico; Reiko preferisce rinunciare al lavoro piuttosto che alla possibilità di una gravidanza; Shinoi è arrivato al divorzio dalla moglie perché troppo preso dal lavoro; Manako non riesce a conciliare la dignità del lavoro con la sua idea di femminilità. Tutti i personaggi sullo sfondo si arrangiano come possono, chi facendo del proprio meglio e chi ricorrendo a mezzucci come lusinghe e “leccaculaggini” varie. Nessuno dei personaggi ha un rapporto sano ed equilibrato con il lavoro, nemmeno quei personaggi che proprio non ne hanno uno.
Il lavoro, però, smette di essere un elemento di elevazione e accrescimento personale nel momento in cui diventa motivo di disagio psico-fisico e rischia di compromettere la salute e la felicità delle persone. La produzione continua, il tempo sempre occupato e la ricerca spasmodica del dato, del numero - riassumendo, il capitalismo indiscriminato - ruba la vita delle persone. Rika non è in grado di gustarsi (tantomeno prepararsi da sola) un piatto: la sua dieta è fatta di pasti pronti del konbini e digiuni inframmezzati da cene solitarie in piena notte. Rika non è in grado di godere del sesso e della vicinanza di un altro essere umano: le sue relazioni sono superficiali o discontinue, anche con la madre e la migliore amica. Rika non è in grado né di assaporare il momento né di fare programmi per l’immediato futuro. Non prova gioia, non ha aspettative ancor prima di ambizioni. Va avanti per inerzia, bruciando le poche energie rimaste senza avere nulla in cambio.
«"Allah desidera agio per voi, non disagio”. » Inconsapevolmente, Rika lo ripeté. «Esatto! Se esistesse un dio, vedendoci soffrire per una prova a cui siamo sottoposti probabilmente non ne sarebbe contento o soddisfatto. Quindi non è detto che si debba superare qualsiasi ostacolo con le proprie forze. Non dobbiamo continuare a evolverci a tutti i costi. È molto più importante pensare a portare a compimento la giornata che si sta vivendo.»
La critica di Yuzuki al suo paese è sulla qualità del benessere che offre ai suoi cittadini: è innegabile che il Giappone offra servizi impensabili in altre nazioni, ma a che pro se i suoi cittadini vivono in una nebbia di giorni tutti uguali, devastanti e senza sapore?5 Mostrarsi sempre al meglio, sempre sul pezzo, è davvero più importante che rinunciare alle proprie fragilità e - perché no - a perdersi qualcosa per strada?
“Ogni realtà è un inganno”
E infine, quanto è reale la realtà che viviamo tutti i giorni?
Non credo di essere una persona ignorante: ho molti limiti e confesso che tantissimi argomenti non mi interessino, ma non credo di essere né stupida, né ignorante, né analfabeta (funzionale e digitale).
Eppure, faccio molta fatica a districarmi in questo mondo. O meglio, nella narrazione di questo mondo. Non condivido la filosofia del “bianco o nero”: l’essere umano è un essere complesso (e complessato, aggiungerei) e il mondo in cui vive è stato reso complesso insieme, con e per esso. Tra conflitti, scoperte tecnologico/scientifiche, migliaia di linguaggi e religioni, differenze etniche e culturali e via dicendo, è un’ingenuità credere che pensiamo e sentiamo tutti allo stesso modo. Cerco sempre di capire - non condividere, non giustificare - i motivi per accadono certi avvenimenti.
Me è tutto dannatamente sfumato. Quello che è vero per me non lo è per qualcun altro. I ricordi sono fallaci, le percezioni imprecise, i dati spesso inaffidabili.
Ed è così facile ingannare le persone, quando sai come fare.
"Dove sta il falso, e dove la verità? Se è labile il confine tra una cosa e l'altra, che c'ê di male a scegliere ciò che a una risulta più godibile? Cosa potrebbe mai soddisfare un'amara verità? Cosa c'ê di sbagliato a insaporire con spezie e aromi una realtà altrimenti piatta e crudele? Questa è la mia tecnica per affrontare il mondo, consolidatasi naturalmente grazie alle esperienze di vita, ed è una forma di evoluzione. Tu pensi seriamente che valga la pena porsi di fronte a qualsiasi cosa in modo corretto? Questo mondo merita davvero di essere abitato?"
L’essere umano vuole emozioni, e non rifugge nemmeno quelle negative; come cerchiamo il terrore guardando film horror, cerchiamo di colmare la noia saziandoci di polemiche, conflitti e falsità. Siamo tanti piccoli goblin arcigni, pronti a banchettare sul prossimo scandalo e sulla prossima cattiva notizia.
A volte la verità viene sacrificata sull’altare della convenienza, dell’intrattenimento, dell’autocompiacimento.
Come tutti io ho le mie fantasie, le cose che vorrei sentirmi dire, i vuoti che possono essere colmati solo dagli altri e dagli oggetti. Quanto la mia personalità deriva dalle cose a cui ho creduto e che ho ritenuto essere vere - o false? Le persone sono il risultato non solo dei propri moti interiori, ma anche dall’ambiente in cui crescono, dagli stimoli esterni e dalle persone con cui interagiscono.
Manako Kajii è una bugiarda. No: è una tessitrice di storie; un’attrice; una marionetta nelle mani della dea Fortuna. E Rika, avvolta nelle spire del suo carisma, non è in grado di accorgersi quanto le sue parole siano contradditorie, quanto i particolari siano ogni volta un po’ diversi.
A noi lettori e ad altri personaggi della storia l’ingenuità di Rika può sembrare incomprensibile, ma pensiamoci: quante volte siamo stati ingannati e presi in giro? Da compagni di scuola e finti amici, da partner manipolatori e narcisisti, da datori di lavoro disonesti, da familiari che non ci amano, da politici e personaggi di potere, da social media e AI, da noi per primi?
Un ultimo boccone
“Butter” è un romanzo molto giapponese: ma le vicende narrate tra le sue pagine possono tranquillamente allargarsi a qualunque paese e società globalizzata.
Ricapitolando, l’autrice critica degli atteggiamenti della società giapponese che, purtroppo, impattano pesantemente su linguaggio, percezioni e desideri di molti di noi:
la castrazione del corpo e la discriminazione dei corpi considerati non conformi e non attraenti;
l’accettazione di sé e la fragilità delle relazioni umane;
il ruolo e le ambizioni delle donne, e i conflitti tra le stesse;
il modello capitalistico del lavoro che defrauda i lavoratori di tempo, salute e compensazione adeguata;
la manipolazione delle informazioni e le conseguenze sulla narrazione dei fatti.
“Butter” è un libro splendido. Pesante, massiccio, impossibile da leggere tutto d’un fiato: pretende attenzione, pretende disagio, pretende momenti di pausa in cui riflettere.
Mi aspettavo fosse un romanzo che mi lasciasse l’acquolina in bocca6, quando in realtà mi ha lasciato molti bocconi indigesti. Ho masticato a lungo (forse è più corretto dire “ruminato”, considerando il tempo che ci ho messo a scrivere questo pezzo), ho innaffiato con abbondante saliva e bile e, finalmente, forse sono riuscita a digerire questa portata pesantissima.
Buona lettura, e bon appétit.
Grazie per essere arrivat@ fin qui. Per il momento ti saluto e ti auguro un buon riposo estivo: tornerò tra qualche settimana con - si spera - nuovi temi di cui discutere.
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Non lo sarò mai, ma se non si pratica sport c’è poco da pretendere dalla natura.
Con eccezionali uscite per andare in libreria, ovviamente.
Probabilmente è uno dei motivi che influenzò il mio punteggio finale, e onestamente non biasimo nessuno (a parte me stessa).
Continuo a stupirmi del perché ai giapponesi piaccia tanto l’Italia, paese dove notoriamente la de-responsabilizzazione è galoppante, giustificata e millantata, dove i servizi pubblici sono carenti e il disordine regna sovrano. Probabilmente è proprio per sfuggire all’eccesso di ordine del paese natio, e per provare l’adrenalinica sensazione dell’imprevisto programmato (è pur sempre un’emozione).
Onestamente, è una sensazione che capisco molto bene, ma questa non è la sede per parlarne, non ora.
Chissà perché, mi aspettavo una narrazione più spensierata, nonostante le premesse.